Dopo che mamma non ci fu più, ero sicura che l’eredità sarebbe stata divisa equamente. Finché il notaio non tirò fuori una seconda busta e non lesse la prima riga…

Mamma se n’è andata a fine novembre. E anche adesso, mentre scrivo queste parole, mi accorgo di non credere fino in fondo. È successo tutto come per molti altri: l’ospedale, i medici stanchi, la luce soffusa in stanza, poi il funerale, poi il tavolo con mani e parole estranee. E poi il notaio.
Eravamo in tre seduti di fronte a lui, come ad un esame. Ha letto il testamento: tutto viene diviso in parti uguali tra i tre figli. E ho provato un senso di sollievo. Non perché fossimo avari. Solo perché così è più semplice: uguale significa giusto, non bisogna analizzare chi ne ha più bisogno, chi ha aiutato di più, chi ha chiamato meno. Già ci scambiavamo sguardi, pensando all’appartamento, alla casa di campagna, ai conti.
E poi il notaio alzò gli occhi e disse che c’era un’altra lettera. Non si poteva aprire immediatamente. Solo un mese dopo il funerale.
Quel mese fu strano. Vivevamo come su una corda tesa. Io ero arrabbiata: perché l’ha fatto? Non ci bastava già il dolore? Poi la rabbia si trasformava in colpa, perché lei non faceva mai nulla senza motivo. Ci siamo incontrati raramente, parlando asciuttamente. Ognuno con la propria vita, ma ognuno con un vuoto dentro.
Nei fine settimana andavo a casa sua a innaffiare i fiori. E ogni volta fissavo il buffet dove erano riposti gli album. Non li aprii. Avevo paura di trovare qualcosa che non sapevo. Paura che potesse sorprendermi anche dopo il funerale.
Esattamente un mese dopo, eravamo di nuovo dal notaio. La busta era spessa, con la sua grafia. Le mie mani tremavano a tal punto da farmi arrabbiare con me stessa per questa debolezza.
Dentro c’erano diverse pagine e una fotografia. Nella foto eravamo noi tre, tutti piccolissimi. E solo quando osservai bene notai un particolare: uno di noi la teneva non per mano, ma per le dita, come se fosse un bambino estraneo, non ancora abituato agli abbracci.
Scriveva in modo semplice, come quando parlava in cucina senza voler piangere. Nella lettera non c’erano né condizioni né rimproveri. Solo la verità, che non ebbe coraggio di dire in vita.
Primo: restiamo tutti eredi in parti uguali, perché ci ama allo stesso modo.
Secondo: uno di noi non è suo figlio biologico.
Mi girava la testa, come se fosse stata aperta una finestra in una notte fredda. Continuavo a leggere e comprendevo perché ci avesse detto di aspettare un mese. Se lo avesse detto in vita, non avremmo ascoltato. Avremmo discusso, ci saremmo difesi, accusati. Così ci ha dato la possibilità di elaborare prima la perdita, poi di sentire la verità.
Spiegò come andarono le cose. Molti anni fa aveva una sorella che si trasferì a lavorare in un altro paese. E lì successe una disgrazia. In una notte, un bambino rimase solo. Mamma volò da lui come fosse suo. Poi formalizzò l’affido. E in quel momento decise che non avrebbe spezzato us dividing us into “propri” e “estranei”. Perché i bambini non devono pagare per gli errori degli adulti.
Chiese di non cercare colpe. Di non misurare l’amore con i documenti. Di non rendere la sua morte un motivo per la divisione.
E una frase colpì più di tutte. Scrisse che aveva sempre temuto una cosa: che avremmo cominciato a dividere non i beni, ma il legame di sangue. Che qualcuno avrebbe detto: “tu non sei vero”. Che qualcuno se ne sarebbe andato e non sarebbe tornato. Ci ha ricordato come ci ammalavamo a turno, come lei stava accanto ai nostri letti di notte, come uno di noi nutriva l’altro mentre lei faceva il bucato.
La sua lettera non riguardava un segreto. Parlava della paura di diventare, dopo la sua morte, la causa del nostro odio.
Quando il notaio finì di parlare, nella stanza cadde il silenzio. Guardavo le due persone accanto a me e improvvisamente capii che non sapevo chi di noi non era “di sangue”. E in quel momento fui colta dalla vergogna. Vergogna per aver già cercato di indovinare nella mia testa. Per il vecchio contatore che già cominciava a scattare dentro: chi ha diritto, chi è più vicino, chi è più “autentico”.
Non abbiamo discusso. Ci siamo semplicemente separati, come persone dopo un incidente che ancora non sentono dolore, ma comprendono già che arriverà.
La sera tirai fuori dal cassetto la sua sciarpa. Vecchia, morbida, con un lieve profumo dei suoi profumi. Me la avvicinai al volto e capii che ancora una volta ci stava salvando. Anche da sotto terra. Non ci ha lasciato uno scandalo, non ci ha lasciato spartizione, non ci ha lasciato sporcizia. Ha lasciato una domanda, dalla cui risposta dipende se rimarremo una famiglia.
E voi, cosa pensate sia più importante dopo la morte di una madre: il sangue o chi ti ha preso per mano quando eri completamente solo?



