Ho adottato un ragazzino di quattro anni, e tutto andava bene… finché non è arrivato il suo primo compleanno con me

Quando ho visto Marco per la prima volta, era seduto in un angolo della stanza di un orfanotrofio, stringendo un orsacchiotto di peluche. Aveva quattro anni e gli occhi più tristi che avessi mai visto. Non piangeva. Stava solo fissando un punto, come se dentro di lui non rimassero né suoni né lacrime. Mi sono avvicinata, ho teso la mano, e lui non si è ritratto. Mi ha solo guardato. In quel momento ho capito: volevo essere la sua mamma.

La procedura di adozione ha richiesto mesi. Ho compilato documenti, passato commissioni, aspettato pazientemente. E ogni volta, visitando Marco, sentivo che si scaldava un po’, che la sua mano non era più così diffidente nella mia, e che iniziava a fidarsi di me.

Quando finalmente è arrivato a casa, tutto sembrava quasi fiabesco. Ha esplorato la stanza con cautela, toccando libri, macchinine, facendo domande tranquille. Ha iniziato a ridere — una risata rara e sottile che mi faceva stringere il cuore. Gli preparavo le frittelle, costruivamo con i mattoncini, si addormentava accanto a me stringendo forte la mia mano.

Ma una mattina tutto è cambiato.

Era il giorno del suo quinto compleanno. Mi sono svegliata presto, ho decorato il soggiorno con palloncini, ho preparato una torta alla fragola — diceva che la fragola era la sua preferita. Ho comprato una macchinina che desiderava tanto. Volevo che fosse il primo compleanno che ricordasse come una gioia, una festa, un calore.

Quando è sceso, l’ho accolto con un sorriso e un grido:
— Buon compleanno, Marco!

Si è fermato. Ha guardato tutto — i palloncini, la torta, il regalo — e improvvisamente ha iniziato a urlare. Un grido acuto, doloroso. Si è tolto il pigiama, ha tirato via la tovaglia dal tavolo. Piangeva, tremando, come se qualcosa si fosse rotto. Ho cercato di abbracciarlo, ma mi respingeva, ripetendo:
— No! Non voglio! Dov’è zia Laura? Dov’è casa mia?

Non sapevo chi fosse zia Laura. Non sapevo che nella famiglia affidataria precedente aveva vissuto quasi un anno. E che proprio il giorno del compleanno era stato riportato in orfanotrofio.

Lo psicologo ha spiegato poi: per i bambini con traumi di attaccamento, tali date sono come dei trigger. Per lui il compleanno non era una festa. Era associato al dolore, alla perdita, a quel giorno in cui fu nuovamente abbandonato.

Sono rimasta seduta accanto al suo letto quella notte, mentre dormiva stringendo il solito orsacchiotto di peluche. Le lacrime mi rigavano le guance. Ho capito che essere una mamma non significa solo dare gioia. Significa essere presente, anche quando il bambino ti respinge. Capire che l’amore non è sempre accettato subito.

Il giorno dopo abbiamo mangiato la torta insieme. Senza canzoni. Senza candele. Solo noi due. Lui ha sussurrato piano:
— Grazie, mamma. Solo… non lasciarmi, va bene?

L’ho baciato sulla fronte e ho detto:
— Mai, Marco. Sono qui per sempre.

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