Alla fermata dell’autobus aspettava qualcuno da vent’anni – ma quel giorno si sedette accanto a lei un uomo che conosceva il suo segreto

Una piccola fermata dell’autobus, alla fine della via principale, non attirava l’attenzione a prima vista. Una pensilina metallica, una panchina di legno, una tabella con gli orari scrostata e stinta. Eppure, tutti in città lo sapevano: ogni giorno, alle 17:15 in punto, lì sedeva lei – la donna con il cappotto chiaro e la borsa nera in grembo. Si chiamava Emma.
Emma arrivava lì ogni giorno, con qualsiasi tempo. Col caldo si sventolava con un piccolo ventaglio, sotto la pioggia apriva un vecchio ombrello pieghevole. Tutt’intorno la vita scorreva: le auto cambiavano, i bambini crescevano, i negozi chiudevano e riaprivano. Ma lei restava sempre lì, sulla stessa panchina, seduta in silenzio a guardare la strada, come se aspettasse che l’autobus giusto sbucasse da dietro l’angolo. Ma non era mai salita su nessuno.
Un giorno arrivò in città un uomo di nome Marten. C’era stato tanto tempo prima, da giovane, ma poi era partito. Ora era tornato – solo per qualche giorno. Passeggiando per le vie, la notò. Qualcosa nella sua postura, nella calma con cui sedeva, gli sembrò familiare.
Il giorno dopo arrivò alla fermata in anticipo. Alle 17:15 Emma apparve, come sempre. Sistemò con cura l’ombrello, si sedette sulla panchina e appoggiò la borsa sulle ginocchia. Marten si sedette accanto a lei. Rimasero in silenzio per un minuto.
– Mi scusi, – disse piano, – ma lei… sta aspettando qualcuno?
Emma girò la testa verso di lui. I suoi occhi erano caldi e leggermente segnati dalla stanchezza.
– Sì, – rispose. – Aspetto qualcuno che ha promesso di tornare. Venti anni fa.
Non si aspettava tanta sincerità. Ma sentì che doveva restare.
– E lei crede ancora che possa tornare?
– Non sto aspettando un autobus, – disse sorridendo dolcemente. – Aspetto un momento. Ci eravamo dati appuntamento qui. Se un giorno decidesse di tornare, io sarò qui ad aspettarlo.
Marten rimase in silenzio. Il cuore batteva forte. Capì chi lei stava aspettando. Era suo fratello, Jules – quello con cui era partito tanti anni prima, sognando di conquistare le grandi città. Jules scriveva spesso, ma col tempo le lettere diventarono più rare, fino a smettere del tutto. Gli parlava spesso di una ragazza, Emma, dicendo che un giorno il mondo l’avrebbe dimenticata, ma non lui.
– Lo conoscevo, – disse Marten. – Jules… era mio fratello.
Emma non cambiò espressione. Annuì appena.
– Lo immaginavo. Avete gli stessi occhi.
Rimasero seduti a lungo. Gli autobus passavano, i rari passanti lanciavano occhiate curiose, ma nessuno li disturbò. Marten le raccontò che Jules era vivo, ma viveva da molti anni in un altro paese. Aveva una famiglia. Non le aveva più scritto perché non sapeva come spiegare il perché non fosse tornato.
Emma ascoltò in silenzio. Poi disse:
– Non aspettavo che tornasse. Speravo di non dimenticare com’era andato via. E per me era importante.
Da allora non tornò più ogni giorno. Qualche volta – di venerdì. Altre volte – in primavera. Ma ora sulla panchina c’erano sempre due persone. Perché il ricordo non è solitudine. È una silenziosa fede che si può condividere.