Alla fermata dell’autobus c’era un ragazzino solo – stava aspettando qualcuno che non poteva più arrivare

Alla vecchia fermata dell’autobus, dove in genere nessuno si tratteneva più di un minuto, ogni sera alla stessa ora si vedeva un ragazzino. Zainetto sulle spalle, scarpe da ginnastica blu, occhi fissi in lontananza. Non doveva avere più di nove anni. Sempre puntuale, in ogni stagione — d’inverno con un giubbotto caldo, d’estate con un berretto e una bottiglia d’acqua — arrivava, si sedeva sulla panchina e attendeva. Non chiedeva aiuto, non guardava i telefoni. Aspettava e basta.

Gli abitanti del quartiere lo notavano. Qualcuno provava pena per lui. Altri si limitavano a scrollare le spalle. Un giorno, una maestra della scuola elementare di nome Emma, passando di lì, decise di fermarsi. Lo aveva visto molte volte e quella volta si decise a parlargli:

— Ciao. Aspetti qualcuno?

Il ragazzino annuì. Gli occhi, però, erano sempre incollati alla strada.

— Aspetto la mamma. Mi aveva detto che sarebbe venuta a prendermi. Ha promesso che sarebbe stata sull’autobus giallo.

— E dove abiti?

— Con la nonna. Ma mamma ha detto che, quando potrà, tornerà. Io vengo qui per non mancare l’appuntamento.

Le parole erano semplici, ma qualcosa nel tono del ragazzino colpì Emma. Non sembrava smarrito o spaventato. Al contrario — sembrava quasi abituato ad aspettare. Abituato a credere.

Il giorno dopo, Emma tornò alla fermata alla stessa ora. Il ragazzino era già lì. Lei si sedette accanto a lui, in silenzio. Il terzo giorno portò con sé un termos di tè. Lui la ringraziò e disse:

— E se oggi fosse il giorno in cui arriva?

Passarono diverse settimane. Emma scoprì che il suo nome era Noah. Viveva con la nonna lì vicino e frequentava la stessa scuola dove lei insegnava, ma nei corsi dei più piccoli. Il padre era andato via da tempo, mentre un giorno anche la madre era scomparsa dalla sua vita. La nonna raccontava che la mamma lavorava in un’altra città, ma che «non poteva ancora tornare». Noah ci credeva. E ogni sera aspettava.

Un giorno, mentre erano seduti di nuovo insieme, lui disse:

— So che forse non arriverà mai. Ma se smettessi di aspettare — potrebbe pensare che non mi importa. E invece mi importa tanto.

Emma non trovò le parole giuste da dire. Si limitò a prendere la sua mano. Poi gli propose:

— E se, la prossima volta, aspettiamo insieme? Però non aspettiamo solo mamma. Aspettiamo tutti quelli che sono importanti per qualcuno. Sei d’accordo?

Lui annuì. E per la prima volta sorrise.

Da quel giorno, ogni sera alla fermata c’erano due persone. A volte altri bambini si univano a loro. Ogni tanto anche qualche adulto. Qualcuno restava in silenzio e sorseggiava il tè. Qualcun altro raccontava di chi stava aspettando.

La fermata diventò un luogo di silenzio e speranza. Un posto dove si poteva aspettare — ma non da soli. E anche se qualcuno non arrivava, almeno si poteva sapere che quell’attesa non era stata vana.

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