Mia figlia di 15 anni si chiudeva in bagno ogni giorno e non usciva a lungo. Ho scoperto la verità solo quando ho aperto la porta con forza…

Quando penso a quel giorno, sento ancora un nodo dentro di me. Sembrava un comune giorno feriale. Sono tornata a casa prima del solito, perché il turno di lavoro è stato accorciato. Ho aperto la porta, in casa c’era silenzio. Solo dal bagno proveniva un leggero rumore d’acqua e un singhiozzo strano. Ho subito capito che era lei di nuovo lì. Mia figlia ha quindici anni, e negli ultimi mesi ogni suo giorno era uguale: scuola, un breve ‘ciao’ e subito in bagno. Si chiudeva, accendeva l’acqua e restava lì quasi un’ora.

Inizialmente pensavo che fosse solo un comportamento adolescenziale: vuole stare da sola, musica, telefono, ‘non datemi fastidio’. Ma poi ho iniziato a notare che usciva da lì con gli occhi rossi, come se avesse pianto. Chiedevo cosa fosse successo, e rispondeva con il suo solito ‘tutto a posto’ e andava in camera. E più si allontanava, più mi preoccupavo. Sono una madre e allo stesso tempo sola, non ho un marito, la responsabilità è tutta mia, e vi dico sinceramente – avevo paura.

Leggevo su internet tutte queste storie di autolesionismo, pillole, bullismo a scuola, ragazzi segreti, gravidanza… La mia mente immaginava solo orrori. Di notte restavo sveglia pensando: ‘E se fa qualcosa di brutto lì dentro, dietro quella porta chiusa? E se sta male, e io non me ne accorgo?’ E allo stesso tempo, provavo un senso di colpa: forse ho trascurato qualcosa, non ho parlato abbastanza, non ho prestato abbastanza attenzione.

Quel giorno ero davanti alla porta del bagno e sentivo che singhiozzava piano. Non urlava, non piangeva a dirotto, ma soffocava in sé il pianto, come se avesse paura che qualcuno la sentisse. Era insopportabile. Ho bussato.
– Apri, per favore, tesoro.
Silenzio. Solo il rumore dell’acqua. Ho bussato più forte.
– Amore, ti prego, lasciami entrare, voglio solo starti vicina.
Ancora niente. A un certo punto non mi importava più se si sarebbe arrabbiata o meno. Ho girato la maniglia e ho spinto la porta. Era chiusa, ma non a chiave, solo socchiusa.

La scena che ho visto mi è rimasta impressa nella memoria. Era seduta sul pavimento, con le spalle alla vasca, le ginocchia raccolte, il telefono in mano. I capelli bagnati, il viso gonfio di lacrime. Sentendo aprire la porta, ha scattato e ha cercato di nascondere il telefono dietro la schiena, come una bambina che tenta di nascondere qualcosa di proibito.

– Vai via, mamma, per favore, – ha detto rauca. – Non voglio.

Mi sono inginocchiata davanti a lei, su queste piastrelle fredde, e ho risposto piano:
– Non andrò da nessuna parte. Vedo che stai male. Fammi almeno capire perché.

Tremava, le labbra fremevano. Per alcuni secondi ci siamo guardate fisso. Poi improvvisamente mi ha passato il telefono.
– Tieni, visto che sei qui. Solo non dirmi che ‘ignora’.

Sullo schermo erano aperte chat e discussioni. Ho cominciato a scorrere. Inizialmente non credevo ai miei occhi. Le sue foto, scattate di nascosto: in mensa, negli spogliatoi, sulle scale. Dove semplicemente sta, siede, sorride, guarda fuori dalla finestra. E sotto ogni foto – commenti. Crudeli. Cattivi. Sul suo aspetto, i vestiti, il fisico. Battute, meme, parti del suo viso ritagliate e messe su certi corpi. Emojis, risate esagerate.

– È la tua classe? – ho chiesto con voce tremante.

Ha annuito e ha ricominciato a piangere.
– Dicono che sono brutta. Che faccio schifo. Che mi parlano solo i secchioni perché non hanno scelta. Hanno creato una chat dove ‘parlano’ di me. C’è tutta la classe, anche quelli che mi dicevano che siamo amici.

E poi ha detto una frase che mi ha distrutto:
– Mamma, capisci, se mi ignorassero sarebbe più facile. Ma così hanno fatto di me… uno spettacolo.

Ripensavo all’ultimo trimestre: le sue ’emicranie’, il suo non voler andare a scuola, sempre con il telefono, queste chiusure in bagno. E tutto ha preso una forma così spaventosa che quasi mi sono messa a piangere davanti a lei.

– Perché non mi hai detto nulla? – sono riuscita solo a chiedere.

– E che avresti fatto? – mi ha guardato stanca. – Saresti venuta a scuola, avresti fatto una scenata, e poi loro avrebbero fatto ancora più scherzi. E avrebbero scritto che ho portato perfino mia madre a risolvere i miei problemi. Non volevo essere un peso per te. Hai già abbastanza da fare.

Queste parole – ‘un peso’ – le ricorderò a lungo. Il mio stesso figlio pensava che il suo dolore fosse un peso per me. Come è successo che non ha visto in me una protezione, ma un ulteriore carico?

Siamo rimaste in quel bagno, credo, un’ora. La tenevo per mano, le accarezzavo la spalla, lei si sfogava di tutto ciò che aveva accumulato: quanto si spaventa ogni giorno entrando in classe, quanto fa finta che non le importi, e poi torna a casa e si nasconde qui, in bagno, perché è l’unico posto dove nessuno la vede.

Quella stessa sera ho scritto alla docente, alla psicologa della scuola, al vicepreside. Il giorno dopo sono andata a scuola. Ero agitata, ma ci sono andata lo stesso. Perché peggio di ciò che sta accadendo a mia figlia non può essere. Sì, capisco che con una conversazione non si risolverà tutto. Sì, so che alcuni genitori diranno: ‘Sono solo scherzi, state esagerando’. Ma almeno ci provo, non posso permettermi di stare con le mani in mano e aspettare che mia figlia si chiuda in sé stessa o, Dio non voglia, faccia qualcosa a sé stessa.

E sapete a cosa penso tutto il tempo? Al perché ha aperto il telefono prima agli haters che a me. Perché i figli degli altri scrivono cattiverie senza freni e lei ha paura di scrivermi: ‘Mamma, sto male’.

Essere sinceri… secondo voi, siamo noi adulti a mancare in qualcosa se i nostri figli restano in silenzio e scelgono di piangere in un bagno chiuso invece di venire da noi e dire semplicemente: ‘Ho bisogno del tuo aiuto’?

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