Per cinque anni il mio ex marito non ha pagato gli alimenti per nostro figlio. Ma una frase di un’amica mi ha spinto a fare un passo dopo il quale lui stesso ha cominciato a implorarmi di fermarmi…

Per cinque anni non ha pagato gli alimenti. Non «ritardava» e non «dimenticava», viveva semplicemente come se il bambino non esistesse. Sulla carta era sempre «senza lavoro», «al minimo», «nei debiti». Ma nella vita reale comprava oggetti costosi, cambiava automobili, andava in vacanza, affittava una nuova casa. Io vedevo tutto ciò e mi sentivo impotente. Gli ufficiali giudiziari alzavano le mani: nessun reddito ufficiale, nessun bene, tutto intestato ai genitori. E io ogni mese contavo i soldi per le attività, le medicine, le raccolte scolastiche e facevo finta di farcela.
Il più pesante non erano le somme. La cosa più dura era che il bambino progressivamente capiva: si può non sceglierlo. Le feste passavano senza biglietti d’auguri. Alle attività scolastiche sedevo da sola, mentre altre famiglie stavano insieme. A volte il bambino chiedeva perché il papà non aiutasse e io sceglievo le parole per non ferirlo. Dentro di me, però, cresceva una rabbia di cui mi vergognavo.
Non cercavo vendetta. Volevo solo una cosa: che la partecipazione alla vita del bambino non fosse solo parole ogni sei mesi. Ma dimostrare il «nero» è quasi impossibile quando sei sola e non hai né tempo né forza. Lavoravo, mandavo avanti la casa e ogni visita agli uffici mi sottraeva ciò di cui mancavo: serenità. Facevo tutto ciò di notte dopo il lavoro.
Un giorno, un’amica ed io eravamo davanti al supermercato e le dissi ancora una volta che nulla stava cambiando. Lei mi guardò e mi disse quietamente: «Se nasconde i redditi, non li nasconde solo da te». Questa frase mi fece scattare qualcosa. Mi resi improvvisamente conto che per tutti questi anni avevo cercato di fare leva sulla sua coscienza. Ma avrei dovuto agire seguendo le regole che esistono per questi casi.
Iniziai a raccogliere non «compromat», ma fatti. Conversazioni dove accennava vagamente agli ordini. Screenshot di annunci con i suoi servizi. Foto dei viaggi che lui stesso pubblicava. Trasferimenti dai «clienti» che apparivano nelle notifiche bancarie quando, per abitudine, mandava i soldi «nel posto sbagliato». Ho avviato le segnalazioni agli enti che possono fare richieste là dove una persona comune non può accedere: ricerca di redditi e beni, verifica delle fonti di entrate, possibili occultamenti di redditi. Tutto con calma, punto per punto, con date, somme e screenshot allegati.
I primi giorni avevo paura. Non di lui, ma del fatto che la gente potesse giudicarmi: perché lo tocchi, perché «ti lamenti». Ma poi mi sono resa conto che non è una questione di orgoglio o di guerra. È per il bambino, che non deve pagare per l’astuzia altrui.
Dopo un mese il telefono ha squillato. Ho riconosciuto subito la voce, ma suonava diversa. Non c’era sicurezza, solo fretta e paura. Mi chiedeva «di fermarmi», diceva che «si può risolvere tutto», che io «gli stavo rovinando la vita». Io stavo zitta e guardavo il bambino fare i compiti in cucina perché in camera faceva freddo, e pensavo: chi ci ha rovinato la vita per tutti questi cinque anni, quando sceglievo le scarpe più economiche per poter permettere i corsi?
Non ho urlato. Ho detto solo una cosa: da tempo risolvo in modo umano, ogni giorno. E se una persona ricorda la «umanità» solo quando ha paura, cosa dice questo di lui?
Ditemi sinceramente, vi sareste fermati al mio posto o avreste continuato fino in fondo per il bene del bambino?



