Ogni sera lo chef preparava un piatto extra di cibo – solo anni dopo scoprì chi lo prendeva

In un piccolo caffè all’angolo di una tranquilla via cittadina, lavorava uno chef di nome Tomaso. Tutti lo conoscevano, ma non tanto per il nome, quanto per il sapore. Zuppe calde, pesce al forno, torte alla cannella. La gente veniva non solo per mangiare, ma per scaldarsi. C’era qualcosa di familiare, di inafferrabile nella sua cucina, come un tuffo nell’infanzia.
Ogni sera, dopo la chiusura, quando il caffè si svuotava e le luci della sala si spegnevano, Tomaso lasciava un piatto sul retro, vicino alla porta. Lo copriva con un coperchio, affiancava una forchetta e un tovagliolo, e lo proteggeva con un canovaccio. Poi se ne andava. Non lo faceva per gratitudine; lo faceva perché non poteva farne a meno.
Tutto ebbe inizio molti anni fa. Una sera, uscendo per buttare la spazzatura, vide un ragazzino vicino al bidone, che scomparve velocemente nell’oscurità. Il giorno seguente Tomaso lasciò un piatto – giusto nel caso in cui quel ragazzo tornasse. Il piatto sparì. Nessun grazie, nessuna traccia, solo il piatto vuoto lasciato davanti alla porta. Così continuò per molti anni. Non cercò mai di capire chi fosse, non provò mai a scoprire. Si limitava a cucinare una porzione extra – per abitudine ormai.
Gli anni passarono. Tomaso invecchiò, e il caffè divenne più silenzioso. I vicini se ne andavano, le vie cambiavano. Lui però continuava a cucinare – e a lasciare quel piatto.
Poi, una sera piovosa di ottobre, nel caffè entrò un giovane uomo. Alto, con uno zaino e un cappotto fradicio di pioggia. Si sedette accanto alla finestra e non aprì il menù per molto tempo. Quando Tomaso uscì dalla cucina, l’ospite si alzò.
— È lei? — chiese.
Tomaso rimase sorpreso.
— Io… non so di cosa stai parlando.
L’uomo tirò fuori dallo zaino un tovagliolo bianco. In un angolo c’era il logo del caffè. Vecchio, un poco scolorito.
— Ero io quel ragazzino accanto al suo bidone. All’epoca. Per anni ho mangiato il cibo che preparava. In silenzio. Perché mi vergognavo. Perché non sapevo come ringraziarla.
S’interruppe. Poi aggiunse:
— Grazie a lei non ho solo placato la fame. Sono sopravvissuto. Poi ho studiato. Poi ho imparato a cucinare. Ora sono uno chef. Ho un piccolo caffè in un’altra città. E ogni sera lascio anch’io un piatto davanti alla porta. Perché una volta qualcuno l’ha fatto per me.
Tomaso non rispose subito. Andò in cucina. Tornò con due piatti di zuppa. Li posò sul tavolo.
— Mangia, — disse. — Poi mi racconti tutto daccapo.
Quella sera il caffè tornò ad essere ciò che era sempre stato: un luogo dove il cibo non è solo cibo. Ma una mano calda nell’oscurità. E un ricordo che ritorna quando meno te lo aspetti.