Una breve conversazione con un nonno sull’autobus che cambia la tua giornata

Ero l’ultimo a salire sull’autobus. Bagnato, irritato, con il telefono in mano. Tutto stava andando male: una scadenza, un conflitto sul lavoro, un incontro dimenticato. Volevo solo viaggiare e non pensare.
L’unico posto libero era accanto a lui. Un vecchio di circa ottant’anni. Mi ha gentilmente annuito, cedendomi un pezzetto di sedile, sebbene fosse magro come un bastoncino. Sulle ginocchia aveva una borsa di mele. Le mani rugose, con vene azzurre. All’improvviso si è girato verso di me:
— Sai, oggi compio 83 anni. E amo ancora le persone.
Ho sorriso per cortesia. E lui continuava:
— Una volta pensavo che la cosa più importante fosse il lavoro. Poi ho capito di no. È più importante abbracciare mio figlio. Parlare con mia moglie. Ascoltare, quando ti dicono qualcosa di importante. Anche se è solo una storia su un gatto.
Non aspettava una risposta. Parlava solo. La sua voce era calma e serena, come il vento in un campo. Raccontava di come aveva incontrato il suo amore. Come aveva costruito una casa. Come aveva tenuto la mano di sua madre prima del suo ultimo sonno. E come aveva capito che ogni “addio” dovrebbe essere detto con calore. Perché non ci sarà sempre un “ciao”.
Io rimanevo in silenzio. E dentro di me qualcosa tremava. Improvvisamente era così silenzioso. Come se l’intera giornata si fosse fermata per dare spazio a queste parole. Lui non sapeva chi ero. Non gli importava. Stava semplicemente condividendo.
Alla sua fermata, si alzò, aggiustò il cappello, prese la borsa.
— Non dimenticare di chiamare tua madre, — disse. — E non avere paura di dire: “Ti amo”. Anche se la voce trema.
E se ne andò.
Continuavo il mio viaggio. Il telefono giaceva sulle ginocchia. Non lo aprivo più. Guardavo solo fuori dalla finestra. E sentivo crescere dentro di me qualcosa di reale. Di vivo.